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Pur riconoscendo che il parlare comporta di necessità un ascoltare, la vasta produzione di studi sul linguaggio ne sottolinea la funzione espressiva e tende a schivare ogni confrontazione con i problemi e gli itinerari dell’ascolto. La traiettoria della cultura occidentale appare incardinata alla possanza di un logos nel quale tuttavia non sembrano reperibili dimensioni che promuovano le dinamiche dell’ascolto. Il pensiero filosofico sembrerebbe dunque sotteso da un logos dimezzato nel quale si estrinseca il potere del discorso e sempre più viene a mancare la forza dell’ascolto. La pregnanza originaria del verbo leghein sembra andare smarrita nella ipertrofia del corrispondente sostantivo logos. Mentre la sempre maggiore formalizzazione dei linguaggi specialistici può compromettere una reciprocità comunicativa, la reintegrazione del logos come ascolto e parola mira ad una possibile ancorché travagliata coniugazione di orizzonti. Se gli umani assurgono al linguaggio in quanto vi sia una disponibilità ambientale ad ascoltare, appare filosoficamente più fertile intendere l’ascolto come ciò che consente la nascita stessa del pensiero e non solo come modalità per attingere ad un dire preesistente. «Parla perché viene ascoltato» e non, semplicemente, «Lo si ascolta perché parla». Si cerca di spezzare il circolo vizioso dell’ottundimento per cui ciò che sembra in-audibile risulta in-pensabile, «inaudito». |