Il tema, il motivo ispiratore del libro può generare canzonieri importanti, come a volte è accaduto, ma spesso, purtroppo, lirica sentimentale e incomunicante, pura diaristica enunciazione del dolore. Ma qui, in Daniele Piccini, la precoce morte del padre detta un libro di metamorfosi e visione: il figlio che rammemora e cerca di rifare vivo nel presente il volto scomparso si trasforma continuamente, nel desiderio, come in una mitologia antica e orientale, e la realtà imperforabile, inafferrabile delle fotografie, muove la scena del presente. Pare di sentire Albus Silente, quando dice a Harry Potter, di fronte allo specchio in cui vede vivi e moventi i genitori morti e mai conosciuti: «Allontanati, questo è lo specchio delle brame. Ciò che vedi è impossibile». Ma ciò che vede Daniele Piccini, critico già solidamente affermato e giovane poeta dalla voce già ferma, non viene respinto ciecamente, poiché la poesia nasce da quella ferita e cerca non un altro mondo, ma il mondo della compresenza. Perenni, in questo canzoniere, il contorno delle fotografie e il rumore del mare: visione e suono, primordiale nascita della parola poetica.
Auspico una crescita di oggettivazione per questa poesia, e l’oggettivazione in poesia è azione, dramma, sensous thought, ma intanto ne registro la riuscita fedeltà al compito di un poeta: suscitando un mondo toscano non paesaggistico ma immaginale (il faro Luzi, il faro Cavalcanti con il suo ardere aspro e devastante, le mute e parlanti visioni di Pinocchio, una Toscana lucidamente onirica, hillmanniana accanto alla metafisica silente di Carrà e De Pisis), il poeta, alla fine, ci fa quasi dimenticare il tema per la fiamma azzurra con cui lo attacca e attraversa, e ci lascia feriti e speranti.
Roberto Mussapi