La poesia di Marco Massimiliano Lenzi rappresenta una doppia rivelazione: in primo luogo quella di un poeta importante, di valore indiscutibile, giunto alla prima pubblicazione di peso in età non giovanissima. La seconda rivelazione è forse ancora più significativa, perché lo straordinario libro di Lenzi (fusione di canzoniere e poema, frutto di scaldica conoscenza del libro) attesta l’esistenza di una linea etrusca della poesia italiana maturata negli ultimi lustri del Novecento, sotto i fari di Luzi, Bigongiari, peraltro diversissimi fra loro, con le opere di Ceni, Carifi, anch’essi lontanissimi l’uno dall’altro per cifra e stile, ma affini in una particolare tensione morale. Si tratta dell’accettazione di un nucleo magico al centro dell’esperienza del mondo, e dell’assunzione del compito della poesia come avventura in quel nucleo turbinante e magmatico. Un senso religioso della poesia, lontano da ogni confessionalità quanto dal disincanto.
L’ombra di Campana, in questa faglia etrusca da cui affiorano la percezione drammatica della natura, viva e sfuggente, il contrario dell’idillio, e un lirismo sanguigno quanto meridiano, quello di Lenzi, poeta sapienziale, alimentato di mistica quanto di carne, bruciato da un rovello di ascendenza cavalcantiana, lucidamente invasato dalla compresenza delle cose, in breve poeta dal forte, rattenuto ma inestinguibile furore. Abilissimo a simulare l’atonalità in un tessuto armonico, a fare insomma rabbrividire ciò che è in quiete, Lenzi si collega alla linea dei poeti che fecero della loro vocazione un’incessante interrogazione sul tempo: «L’ora che viene è un’ora / non annunciata, ai margini dell’ora».
Roberto Mussapi